ASSICURAZIONI, BANCHE E FINANZA: NOTHING NEW UNDER THE SUN?

I SETTORI CHE, A PRIMA VISTA, DOVREBBERO SUBIRE LE MAGGIORI CONSEGUENZE IN ESITO A BREXIT SONO, SENZA DUBBIO, QUELLO DEI SERVIZI ASSICURATIVI, BANCARI E FINANZIARI E QUELLI DELLE RELATIVE ATTIVITÀ DI INTERMEDIAZIONE.

Le ragioni sono molteplici: da un lato il fatto che si tratta di settori largamente armonizzati, per di più spesso sulla scorta delle pressioni britanniche; dall’altro la circostanza che gran parte dell’economia britannica poggia proprio su questi servizi; infine -si fa per dire- perché la piazza europea (e forse anche mondiale, insieme a New York) più importante per i mercati assicurativi e bancari è Londra che con Francoforte si contende la palma del più importante centro finanziario europeo.

Ma andiamo con ordine: come si diceva, in tutti e tre i settori sopra individuati forte è stata l’attività di armonizzazione che si è estrinsecata sia da un punto di vista autorizzativo e di controllo degli operatori di settore, mediante l’individuazione di requisiti minimi comuni per la costituzione delle società assicurative, bancarie e finanziarie e il conseguente affermarsi del principio del c.d. home member state control (che attribuisce all’organo di vigilanza del paese di autorizzazione il controllo non solo sull’attività transfrontaliera effettuata senza stabilimento in altro stato membro ma anche sulle sedi secondarie che si trovino e operino in altri stati membri, appunto), sia dal punto di vista di uniformazione dei prodotti, con l’introduzione di normative che hanno accelerato la libera circolazione dei prodotti, in special modo quelli finanziari (basti pensare alla direttive sugli UCITS, sui FIA, sui prospetti informativi e così via).

Il fatto che quest’attività sia stata effettuata a livello dell’Unione Europea e non su base bilaterale né tanto meno con trattati ad hoc, fa sì che, qualora il Regno Unito non riesca a negoziare l’applicabilità di queste normative ai propri operatori nazionali delle guarentigie previste dalla normativa dell’Unione, questi si troveranno nella sostanziale impossibilità di operare nell’Unione con, astrattamente, pesanti ricadute sull’economia britannica. C’è da credere, quindi, che la “battaglia” in sede di negoziato sarà forte, e molto influenzata dalle lobby di settore, visto che, come si diceva, Londra è il principale mercato europeo e gli operatori di settore, probabilmente anche quelli europei, non saranno favorevoli ad ostracizzare i loro sodali britannici. Al tempo stesso, però, è difficile pensare che l’Unione conceda una continuata applicabilità degli attuali regimi agli operatori britannici vuoi per ragioni di puro orgoglio (in fin dei conti il voto a favore di Brexit è una pugnalata al cuore per quella parte dell’Unione continentale e conservatrice, che ha fatto numerose e penetranti concessioni, proprio, a favore degli operatori finanziari, creditizi e assicurativi britannici) vuoi per interesse, visto che ci sono almeno tre piazze finanziarie pronte a dividersi la fetta di mercato che dovesse abbandonare Londra (in rigoroso ordine alfabetico Amsterdam, Dublino e Francoforte).

BREXIT NON PIU’ BREXIT?

Detto così uno potrebbe pensare che ci troviamo di fronte a un’imminente apocalisse economico finanziaria. Niente di più lontano dalla realtà. In primo luogo bisogna distinguere i mercati: i mercati assicurativi, bancari e finanziari di grande importanza, quelli sui quali “girano” cifre a nove zeri e oltre, sono mercati mondiali sui quali operano in pool operatori dell’Unione Europea ed extra Unione Europea.

In questi casi, l’uniformazione normativa operata a livello comunitario non è rilevante in quanto la contrattualistica dei grandi contratti di finanziamento o di assicurazione è scolpita nella roccia delle scogliere di Dover ed è impensabile che questo mercato si sposti altrove. Del pari, ci sembra di poter dire che nulla accadrà sul mercato retail perché è ragionevole ritenere che il mercato al dettaglio sia e rimanga, sostanzialmente un mercato nazionale e, forse anche, regionale. Certo qualche effetto potrà aversi con riferimento all’offerta di servizi assicurativi, bancari e finanziari online ma, per volumi complessivi, non si tratta di fette di mercato rilevanti. Peraltro, la struttura leggera che caratterizza le società che operano on-line farà sì che si possano spostare al di fuori del Regno Unito, se necessario, senza particolari intoppi né serie conseguenze in termini occupazionali.

Il settore che rischia di subire le maggiori (e peggiori) conseguenze è quello del mid-market; quello degli investitori professionali che movimentano cifre significative ma che rimangono pur sempre operazioni di livello europeo. Sono questi i casi in cui il venir meno della libera prestazione dei servizi e della libera circolazione dei prodotti potrebbero avere un impatto significativo sugli operatori del settore.

Altro elemento di potenziale rischio sono gli aspetti fiscali. Come verranno tassati gli investimenti o i proventi derivanti dai prodotti di questi tre settori, sia per l’utente sia per il prestatore di servizi? Che cosa ne sarà della direttiva madre/figlia? E che cosa accadrà sull’imposizione sugli interessi attivi? Sono tutti interrogativi importanti ma che ad oggi non trovano una risposta.

Senonché, non bisogna dimenticare una serie di circostanze di non secondaria importanza: innanzitutto la quasi totalità degli operatori britannici ha costituito società (e non semplici succursali) in altri paesi UE (mentre i più importanti operatori europei hanno costituito società a Londra). Questo vale sia per le banche, sia per le compagnie di assicurazione, sia per gli operatori del settore finanziario. Ne consegue che al fine di poter continuare a offrire i propri servizi e a vendere i propri prodotti nell’Unione Europea si potranno avvalere delle loro società “sorelle” costituite in paesi dell’Unione che continueranno a beneficiare della libera circolazione dei servizi nonché del passaporto per i propri prodotti (mentre le subsidiaries di gruppi europei costituite nel Regno Unito potranno continuare a svolgere lì la loro attività).

In secondo luogo, non ci si deve dimenticare che l’armonizzazione effettuata è talmente profonda, specie nel settore finanziario, che le normative nazionali sono molto simili tra di loro. Allo stesso tempo, le autorità di vigilanza dei vari paesi hanno una profonda conoscenza reciproca visto che siedono congiuntamente nei vari organismi che le riuniscono. Per tale motivo non si può escludere –o almeno è ragionevole pensarlo- che le autorità di vigilanza europea stringano accordi di reciproco riconoscimento con quell britannici e possano, per l’effetto, accettare che entrino sul mercato comunitario anche prodotti britannici, e viceversa. Infine, va ricordato che i settori in questione sono quelli in cui la fiducia la fa da padrone. E’ per questo che è ragionevole pensare che gli operatori di settore continueranno a fare affari con i loro colleghi e amici britannici.

Il tutto senza dimenticare che sarà sempre e comunque possibile usufruire della c.d. “passive sale exemption” vale a dire di quella regola che valuta legittima la resa dei servizi dei tre settori di cui ci si occupa, su sollecitazione del cliente e non dell’intermediario. Se, a prima vista, sembra un’eccezione di poco conto, nel caso di specie non è così. I contatti tra operatori di settore sono continui, le conoscenze comuni, i luoghi i medesimi: ecco perché è ragionevole credere che fare parte di un mercato comune da molto tempo (inteso nel senso di luogo di scambio e non di mercato dell’Unione Europea), consentirà agli operatori di continuare a svolgere la loro attività in maniera sostanzialmente identica a quella precedente.

In sintesi, mentre la cautela è d’obbligo vi sono, almeno allo stato, ragionevoli motivi per credere che, almeno con riferimento a questi settori, “there is nothing new under the sun”.